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  • Immagine del redattoreDavide Gaeta

SOCCORSI NEL MEDITERRANEO: intervista ad Alessandro Porro

Nel 2017 a Salerno, durante uno dei diversi sbarchi persone migranti ai quali ho partecipato come volontario CRI, ho visto per la prima volta la celebre nave Aquarius: quella è stata l'occasione in cui ho conosciuto SOS Mediterranée, organizzazione non governativa umanitaria che ha come obiettivo la conduzione di operazioni di ricerca e soccorso in mare nella regione del mar Mediterraneo.

Con questa intervista ad Alessandro Porro, Presidente italiano di SOS Mediterranée ed Operatore SAR della nota nave Ocean Viking, andiamo ad analizzare gli aspetti tecnici legati all'azione del soccorso in mare in un contesto così complesso.

 

Come si diventa Operatore SAR di una nave da soccorso e come si svolge nell'ordinario la sua attività a bordo?

Il percorso può essere molto diverso da organizzazione a organizzazione. Nel caso di Sos Mediterranée vengono selezionati operatori con competenze marittime e di soccorso. I miei colleghi sono marinai, capitani, piloti, sommozzatori di professione, ma anche infermieri, vigili del fuoco, ex militari, operatori di ambulanza. Tutti devono parlare inglese ed essere certificati STCW, ovvero aver superato i corsi di base di sicurezza, antincendio e primo soccorso del settore marittimo. Le nostre giornate si dividono tra addestramenti in aula (bls, tecniche di soccorso), prove pratiche in mare (simulazioni sui gommoni di salvataggio) e manutenzione della nave. Di base sono otto ore al giorno di lavoro, ma durante le fasi di soccorso non ci sono orari.



Come si svolge l'ordinaria attività di pattugliamento, oppure una ricerca a seguito di una distress call?

Fino a giugno 2018 eravamo coordinati dall’ IMRCC di Roma. Dal giorno in cui sono stati “chiusi i porti” italiani alle navi umanitarie, e al conseguente riconoscimento della responsabilità nel coordinamento dei soccorsi da parte delle autorità libiche, ci troviamo completamente soli nel Mediterraneo, senza alcun supporto. Le imbarcazioni in difficoltà vengono quindi rintracciate autonomamente, passando le giornate osservando radar, binocoli e termocamere. Gli aerei civili di Pilotes Volontaires e Sea Watch sono spesso in scena, fornendo supporto dall’alto. Alcune segnalazioni arrivano tramite l’ONG Alarm Phone, che inoltra le chiamate di soccorso alle guardie costiere nazionali e alle navi umanitarie.


Come funziona l'avvicinamento ad un'unità con tante persone a bordo, oppure ad un gruppo di naufraghi in acqua?

Quando interveniamo in mare dobbiamo stare molto attenti a non spaventare le persone che andiamo a soccorrere, perché molto spesso ci scambiano per libici e potrebbero tentare una fuga, o manovre pericolose per la loro incolumità. Al contrario, l’euforia di essere salvati potrebbe spingere le persone a buttarsi in acqua per raggiungerci, oppure il movimento delle persone potrebbe indurre il ribaltamento di quelle imbarcazioni improvvisate.

Per questo fermiamo la Ocean Viking a una buona distanza, tale da disincentivare manovre azzardate. A quel punto aliamo i nostri gommoni di salvataggio, due o tre a seconda della circostanza, e interveniamo con almeno 200 giubbotti salvagente. Spesso portiamo con noi delle zattere per alleggerire il carico umano sulle barche da soccorrere, oppure dei galleggianti lunghi venti metri.

Giunti a poca distanza stabiliamo un contatto in inglese, francese e arabo, ma gran parte dei messaggi vengono trasmessi con il linguaggio del corpo. Siamo piuttosto teatrali, dobbiamo conquistare la fiducia di anche 200 persone per volta, e se i naufraghi non seguono le nostre indicazioni ci allontaniamo. Dobbiamo essere sicuri che le persone sui gommoni seguano le nostre indicazioni, ne va della loro vita.



Contrariamente a quello che può essere l'immaginario collettivo, nel vostro sistema di intervento non esistono soccorritori che entrano in acqua. Potresti fare una delucidazione su questo aspetto?

Il nostro contesto vede decine o centinaia di persone in acqua allo stesso tempo. E’ molto diverso dal soccorso costiero, in cui il numero di pericolanti è paragonabile a quello dei soccorritori. Buttarsi in mare per recuperare una persona porterebbe a rallentare le operazioni e a concentrare tutte le risorse sull’individuo piuttosto che sul gruppo. Un nostro soccorritore in acqua sarebbe una boa a cui si potrebbero attaccare decine di individui. Ci comportiamo come in una maxi emergenza, in cui cerchiamo di fare il massimo per il più grande numero di persone contemporaneamente. Per questo motivo le nostre sono tecniche di soccorso di massa, pensate per un numero molto alto di individui, e tutti i nostri equipaggiamenti e procedure sono adattati allo scopo.



Nei video dei vostri interventi si nota spesso l'impiego in acqua di grossi tubi gonfiabili. Cosa sono e come funzionano?

Noi le chiamiamo “banane”, e sono dei dispositivi di galleggiamento di massa, capaci di sostenere ciascuna un centinaio di persone. Servono in caso di naufragio, a seguito della rottura della struttura di un gommone o del ribaltamento di una barca di legno. Sulla Ocean Viking abbiamo quattro banane, due per lato, e sono estremamente facili da buttare in mare: basta tirare una cima. Poi vengono recuperate dai gommoni e portate in scena ad alta velocità, anche oltre 25 nodi.


Qualche specifica tecnica sulle dotazioni che impiegate (battelli veloci, zattere, dispositivi di protezione individuale, ecc)?

Gommoni e banane sono costruiti secondo nostro progetto. I gommoni devono essere imbarcazioni molto robuste, rinforzate, con doppio motore e una piattaforma rialzata a prua, capaci di ospitare 25 persone compreso l’equipaggio, attrezzati come un’ambulanza di primo soccorso e molto visibili al radar. Ogni gommone ha un transponder AIS e delle telecamere per registrare a 360 gradi.

Le zattere sono gommoni da rafting, resistenti e facili da trasportare.

I nostri DPI prevedono stivali antinfortunistici e resistenti agli agenti chimici, salopette impermeabili, elmetto con visiera e luce, maschera FFP2 ad alta resistenza, giubbotto autogonfiabile da 275 N, due radio UHF e VHF, guanti da vela, cima di sicurezza e un trasponder AIS di emergenza.



Tra una tradizionale azione di salvataggio ad un pericolante ed un soccorso massivo in mare aperto esistono tecnicamente delle differenze tangibili. Tu quali andresti ad evidenziare?

I numeri sono tutto. Nel Mediterraneo Centrale assistiamo imbarcazioni improvvisate, sovraffollate e cariche di persone che sono in mare da più giorni, spesso disidratate e intossicate dai vapori di benzina o dai gas di scarico. Non abbiamo il pieno controllo sullo scenario e dobbiamo accettarlo. Si parla di centinaia di persone, spaventate e che lottano per la sopravvivenza. Molte di loro sono fisicamente esauste, o affette da ustioni da carburante. Spesso ci sono cadaveri sul fondo dei gommoni. Dico questo per rendere più chiaro il contesto, che è del tutto simile a una maxi emergenza.

Le nostre tecniche puntano prima di tutto alla gestione della folla: privilegiamo messaggi elementari (zitti, seduti) da impartire in modo visibile, teatrale, per ottenere la collaborazione delle persone.

Difficilmente assistiamo persone vittime di traumi fisici, semplicemente perché cadute, armi da fuoco e schiacciamento portano alla morte prima del nostro arrivo. Sopperiamo però con una preparazione maniacale sulla rianimazione e la ventilazione, utilissime su vittime di annegamento.

Non sempre le prime persone a essere recuperate sono quelle cadute in acqua. La nostra priorità, entro limiti ragionevoli, è di fornire giubbotti di salvataggio a tutti, procedendo poi ad estrarre chi è in maggior pericolo.

Il modo di dire “prima le donne e i bambini” non si può sempre applicare, ci sono situazioni in cui occorre alleggerire l’imbarcazione di quante più persone possibile (qui entrano in azione le nostre zattere), e spesso è conveniente spostare chi ha meno difficoltà di movimento, ovvero i maschi adulti.

Spesso ci troviamo a intervenire su barche con molti bambini e neonati. Per ogni bambino imbarchiamo un adulto, non necessariamente la madre o il padre, in modo che ci sia qualcuno che possa fisicamente prendersi cura di loro e liberare le mani dei soccorritori.


Sotto il profilo tecnico, diverse condizioni possono rendere difficili le operazioni di soccorso (mare formato, intervento in notturna, ecc). Quali sono gli scenari più complessi?

Gli interventi con il mare grosso sono pericolosi ma piuttosto circoscritti, perché le imbarcazioni che soccorriamo sono inadatte alla navigazione e con onde alte più di due metri non hanno speranza di resistere. In altre parole, spesso il mare non offre via di fuga. Al contrario, è piuttosto frequente intervenire di notte, soprattutto d’inverno con le giornate corte. Le difficoltà sono facili da immaginare, ed è per questo che abbiamo addestramenti specifici al buio. Una volta, con oltre 20 persone cadute in mare, abbiamo dovuto spegnere i motori e orientarci seguendo le urla.

Le difficoltà maggiori sono comunque legate alla struttura delle barche che soccorriamo. A volte capita di intervenire su barche di legno a tre piani, sovraffollate al punto di ospitare oltre 300 persone, con gente stipata anche attorno al motore e alle taniche di carburante. I soccorsi possono durare ore, nel costante pericolo di ribaltamento. Queste barche non hanno quasi mai una pompa di sentina indipendente, per cui i motori devono rimanere accesi, e contrariamente a quanto si pensa, non ci sono persone con esperienza al loro comando.


Dal punto di vista della navigazione, il Mediterraneo viene (credo erroneamente) valutato come un mare meno impegnativo rispetto all'Oceano, in quanto grande bacino circoscritto. Qual è la tua opinione in merito?

Il Mediterraneo è un mare che esige rispetto, dove le onde sono mediamente più basse rispetto all’Oceano ma con una frequenza maggiore. Non sono infrequenti tempeste con onde di cinque o sei metri, formazioni di tornado o vento oltre i quaranta nodi. Condizioni che condannano gommoni e piccole barche di legno senza alcun appello.

In dieci anni sono morte nel Mediterraneo Centrale oltre trentamila persone, facendone la frontiera più pericolosa del mondo. Ai pericoli del mare se ne aggiungono alcuni di natura umana e politica, quali l’assenza di un piano di soccorso coordinato e condiviso a livello europeo, e la delega alle forze libiche che intervengono a proteggere le frontiere dell’Europa invece che a soccorrere persone.



Che cos'è SOS Mediterranée, come nasce, come è strutturata e come opera?

SOS Mediterranée è un’associazione europea per il soccorso in mare, presente con società nazionali in Italia, Francia, Germania e Svizzera. Fondata da operatori umanitari e marittimi, è attiva dal 2016 prima con la nave Aquarius e ora la Ocean Viking. Imbarca soccorritori, medici, infermieri e tecnici, grazie ai quali ha portato in salvo oltre trentacinque mila persone. L’associazione funziona grazie alle donazioni di cittadini in tutta Europa, che concorrono alle spese di navigazione e fanno azioni di sensibilizzazione a terra.

SOS Mediterranée è sostenuta da un’importante mobilitazione cittadina, da persone che credono che sia inaccettabile lasciare altre persone morire in mare. Nasce all’indomani della chiusura dell’operazione Mare Nostrum, quando cessa di esistere l’unico progetto europeo di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Da allora è stata al centro dell’attenzione pubblica e, suo malgrado, coinvolta in dibattiti politici. Per noi di SOS Mediterranée la polemica sul nostro operato non esiste: la legge del mare dice che i naufraghi vanno salvati, e portiamo avanti quello dovrebbero fare gli Stati europei - ma con molte meno risorse. Da alcuni mesi siamo supportati dalla Federazione internazionale della Croce Rossa (IFRC) che fornisce personale medico e mediatori culturali alla Ocean Viking.




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